Diritti umani

Che forma può assumere la libertà in carcere: come il lavoro rieduca alla cultura

Le pene devono tendere alla rieducazione, recita l’articolo 27 della Costituzione. I racconti dal carcere di chi da anni ci prova attraverso i filati, l’agricoltura biologica e la filosofia. In un podcast.

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Riducono la recidiva, restituiscono dignità e danno valore al tempo della pena. Questa storia ci conduce all’interno degli istituti di pena lombardi, alla scoperta dei progetti di lavoro e delle iniziative culturali per i detenuti: ancora poche, ma in crescita. In carcere la libertà può assumere forme inaspettate. Può avere il profumo dei prodotti della terra coltivati con metodi biologici o il suono delle macchine da cucire. Può raccontare e riflettere attraverso la filosofia. Le attività che i detenuti portano avanti all’interno degli istituti di pena, non sono soltanto occupazioni e lavori fini a se stessi, ma hanno l’obiettivo di essere un vero e proprio progetto sociale, e di influire sulla vita dei detenuti. Crescono infatti nelle case circondariali lombarde progetti di lavoro, formazione e cultura. Forse gocce nel mare, rispetto ai dati allarmistici sul soprannumero di detenuti nelle carceri italiane e le conseguenti difficoltà annesse. Elementi però che svolgono una funzione fondamentale per trasformare il tempo in carcere in tempo di rieducazione e dignità, così come previsto dall’articolo 27 della nostra Costituzione.

L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.Articolo 27 della Costituzione italiana

La dignità nel filo di una toga

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Alice vuole essere la possibilità per le detenute di fare di nuovo parte di un progetto: “Con queste donne, dopo un lungo percorso di formazione che dura anni, realizziamo sartoria artigianale di abiti femminili e arredi tessili – racconta Luisa Della Morte, responsabile sociale della cooperativa Alice –. Gatti Galeotti e Sartoria San Vittore sono i nostri due marchi risultato delle attività svolte in carcere. Un giorno, un magistrato del tribunale di sorveglianza ci ha invitate a tessere con queste donne anche le toghe per i magistrati: oggi produciamo circa duemila toghe non solo per giudici ma anche per magistrati e avvocati”.

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Questo è il tipo di pena che guida verso la rieducazione i condannati. “Il nostro obiettivo – conclude Luisa – e il nostro più grande risultato è che queste donne continuino anche fuori dal carcere a collaborare con Alice, tessendo e mettendo in pratica quanto appreso all’interno dell’istituto di pena”. Azioni e attività come quelle della cooperativa Alice affrontano non solo il problema della dignità del tempo trascorso in carcere dai detenuti, ma anche quello della mancanza di possibilità di lavoro per le persone ristrette nella libertà: così facendo – in questo caso – le detenute apprendono un lavoro che, una volta scontata la pena, sia spendibile in termini di occupazione anche nel mercato del lavoro.

Sartoria San Vittore
“Con queste donne, dopo un lungo percorso di formazione che dura anni, realizziamo sartoria artigianale di abiti femminili e arredi tessili” © Sartoria San Vittore

Saperi e sapori dal carcere

Non solo, l’esperienza lavorativa in carcere produce un aumento dell’autostima e della fiducia in se stessi, e promuove l’interazione con gli altri, la puntualità, l’affidabilità nella relazione. Il lavoro in carcere è contro la recidiva. Il lavoro in carcere è un ponte con la società, tra chi sta dentro e chi vive fuori.

Ed è proprio in quest’ottica che la cooperativa cremonese Nazareth dal 2014 ha deciso di fare impresa in carcere e di farla con un’impronta sociale. La cooperativa è partita da un campo con pochi ortaggi e frutta coltivati con i metodi dell’agricoltura biologica. “Ci hanno detto che in carcere c’era una cucina dismessa ma ancora funzionante – racconta Giusi Brignoli, Responsabile dell’area produttiva della cooperativa Nazareth – e abbiamo deciso di integrare la nostra filiera produttiva con la creazione dei trasformati delle materie prime. Gli ortaggi raccolti quindi vengono portati all’interno del carcere e lì vengono lavorati dai detenuti insieme allo staff della cooperativa”.

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https://www.youtube.com/watch?v=7-mzoaZPubE Il prodotto finale sono conserve o verdura già pronta per essere venduta. “Il lavoro agricolo conferisce una professionalità sia ai ragazzi seguiti dalla cooperativa che ai detenuti che li affiancano – continua il racconto Giusi –. La comunità agricola di Cremona inizia ad acquistare i nostri prodotti di agricoltura biologica perché quello che produciamo non ha solo un valore legato al prodotto, ma ha anche un valore sociale”.

Cooperativa Nazareth, carceri
Nazareth è attiva sul territorio dal 2001. La sua attività core è sempre stata quella dei servizi educativi per minori e famiglie © Cooperativa Nazareth

Anche in questo caso il lavoro diventa un ponte tra chi sta dentro il carcere e chi sta fuori. Un ponte composto da buone pratiche, lastricato dal buon cibo biologico. Una pratica che dal carcere richiama anche la collettività ad applicare modi di produrre e consumare diversi, puliti, sani, biologici e solidali.

Rieducazione la maieutica della pena

Non è solo il lavoro a restituire dignità a chi sta in carcere. Lo è anche la formazione, l’educazione, la cura dello spirito. Lo dicono i dati dell’associazione Antigone: lavoro e formazione abbattono la recidiva dell’80 per cento. In pratica, studiare, imparare un mestiere, sono solidi mattoni su cui plasmare una vita nuova una volta fuori dall’universo del carcere. La filosofa e docente Paola Saporiti, grazie all’associazione Sesta opera San Fedele, ha deciso nel 2014 di far incontrare la filosofia con il carcere per creare semi che con il tempo e la giusta cura, possano crescere e dare frutti. Da questa idea e dalla sua volontà è nato il Café Philò. “Porto avanti questa attività insieme ai miei studenti dell’ultimo anno del liceo sia nel reparto maschile che dal 2015 anche in quello femminile del carcere di Bollate – spiega la docente –. Questo è un momento che stimola la riflessione degli studenti e dei detenuti su temi che sono stati oggetto dei ragionamenti dei grandi filosofi, come la felicità, l’altro, il rispetto, il successo, la scelta”. Nel momento in cui la filosofia viene riportata all’ordinarietà del quotidiano, all’interno del carcere, non solo essa ritorna alle sue origini più autentiche, ma soprattutto rivela tutta la sua valenza pedagogica e formativa, manifestando il vero significato dell’articolo 27 della nostra Costituzione per cui le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Il lavoro, la formazione e la cultura, le toghe e i filati di Alice, il buon cibo biologico della cooperativa Nazareth e le riflessioni stimolate dalla filosofia consentono al carcere di non essere un luogo d’isolamento, ma di essere un ponte che rimette in contatto chi ha sbagliato e sta all’interno dell’istituto di pena con chi vive all’esterno, con la società.

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